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di Tania Belli
Chi, prima dello scoccare degli anni cinquanta del secolo scorso, ha avuto la “disavventura” di conoscere Esmeraldas, la seconda città costiera dell’Ecuador (una città che a fatica viene considerata latinoamericana, in virtù del colore tendente al cioccolato dei suoi abitanti, di “chiara” origine africana), si troverebbe in seria difficoltà nel rassomigliarla a quella che gli apparirebbe dinanzi oggi, agli inizi del III millennio.
Tutto ciò, poiché, nel frattempo, da un esercito recante le insegne del nostro tricolore, vi si è intrapresa e combattuta una vera e propria lotta per lo sviluppo. Una lotta indolore (almeno in quanto a spargimenti di sangue) con la quale, granello a granello, se ne è propiziata la metamorfosi, compiendo un prodigio che, immaginato dal di dentro di quel remoto girone dantesco, pareva molto di più che una chimera.
Chi, dunque, dietro la sobria e squadrata griglia di strade che attualmente ne costituiscono lo scheletro, saprebbe riconoscere il profilo sudicio e disordinato della Esmeraldas pre-rivoluzione, che per nascere si dovette appoggiare sulle sponde dell’omonimo rio, a cui tuttora si aggrappa?
Chi, visitandone il porto in un giorno qualsiasi di questo 2007, piuttosto che l’area metropolitana, sarebbe capace di immaginare cosa fosse Esmeraldas precedentemente allo sbarco della pacifica, ma agguerrita truppa dei monaci comboniani sulla sua verde spiaggia?
Sì, gli italianissimi monaci comboniani: in quanto proprio ad uno sparuto gruppo di uomini armati di saio, croce e buona volontà, appartenenti al peculiare reggimento monastico “made in Italy”, si deve lo scoppio della bomba rivoluzionaria nel caos, impregnato di povertà ed immoralità, di una Esmeraldas in piena espansione. Una Esmeraldas dove, mancando quasi del tutto il lato etico del vivere associato, nonché l’ottimismo di ammirare fiduciosi l’orizzonte, il rimbombo della deflagrazione provocata dai frati combattenti, fece breccia soprattutto nelle anime. In quelle cavità toraciche in cui, sino a quel momento, avevano alloggiato essenzialmente cuori svuotati della speranza, della dignità e del desiderio di vivere. Fu in tal modo che, restituendo a creature disilluse gli stimoli ormai assopiti da una esistenza grama e desolatamente abbandonata alla misera del sopravvivere, quegli umili, ma infaticabili soldati della fede, seppero dare fuoco alla fiamma di un cambiamento dalla portata rivoluzionaria.
Una mutazione che, radicandosi nella terre di una coscienza nuova (una coscienza rigenerata iniettandovi l’antidoto più efficace per riattivarla, ovvero educazione combinata con moralizzazione), poté far risollevare le aspettative di una intera città. Quella città che, rassegnata, piegava inesorabilmente verso il basso il suo sguardo. Non un domani da costruire, né un futuro da riempire, quanto neppure progetti per il miglioramento della precaria dimensione contingente, ma solo un presente da condurre fino alla sera, da vivere alla giornata, erano, invero, le preoccupazioni che turbavano i pensieri dei suoi abitanti fino ad allora.
Un allora che, tuttavia, fu preparato ed agevolato dai moti scatenativi, almeno un ventennio prima, dalle intrepide amazzoni con il velo di una congregazione monastica belga. Le “suore della provvidenza”, infatti, decisero di puntare verso la costa nord dell’Ecuador il timone della loro arca; un’arca carica di solidarietà e spirito mistico. Un’arca che ogni giorno di più, pur imperversando intorno a sé un furente diluvio di sfiducia, machismo e malcostume, è riuscita a far salire a bordo, dandogli la possibilità di riparare in un molo immune dalle intemperie, un numero sempre maggiore di anime smarrite. Adolescenti ed adulti, maschi e femmine, neri e bianchi che nuotavano, senza posa, nelle acque agitate di una società in balia dei suoi malesseri.
Pertanto, suore e monaci insieme, attaccando su diversi fronti, ma pur sempre movendosi dal medesimo versante, quello di comunicare un nuovo messaggio parlando tramite il megafono dell’istruzione scolastica, sono stati i veri strateghi di una partita giocata senza regole, e, men che meno sicurezze, come una sorta di poker a carte scoperte, con in palio le loro stesse vite.
E le loro vittorie sono ancora ben visibili; e non soltanto lo sono nelle generali implicazioni di un cambiamento fatto principalmente di sostanza, più che apparenza, cioè nei fini da loro strenuamente perseguiti, quanto anche nei mezzi adoperati per arrivare a toccarli, cioè nei ponti costruiti per far giungere a destinazione gli input trasmessi. Scuole, collegi e strutture formative: queste, in definitiva, sono le impronte a tutt’oggi esistenti del passaggio ad Esmeraldas dei frati e delle ancelle della salvezza.
Tuttavia, se ai giorni nostri il “Colegio de la Inmaculada”, appare ben fermo e stabile sulle gambe con cui si sollevò e poi inizio a camminare nel 1926 (le gambe dell’interrotto feeling con le sue fondatrici, giunte alla quarta generazione, quella ispirata, a partire dall’anno accademico 2006, dalla saggia umanità di madre Julia Elena); la creatura plasmatavi dai comboniani, il “Colegio Sagrado Corazón”, già da un pezzo non è più sotto la loro diretta gestione. Le sue redini, però, sono passate nelle salde mani di coloro che ne ereditarono il compito-vocazione di piantare ad Esmeraldas i pilastri con cui puntellarne un futuro più roseo.
Le mani di laici, missionari e religiosi, per lo più “italian speak” (sorta di Re Magi post-moderni, stando almeno a come me li hanno descritti i loro alunni, mettendone in parallelo l’instancabili azione in qualità di portavoce di principi d’innovazione e positività, con la simbologia insita nelle tre figure bibliche, portatrici, tramite i loro doni, di un lieto e prezioso annuncio), sotto la cui illuminata l’egida (un misto di pubblico e privato), centinaia di giovani esmeraldegni continuano a riporre e mettere al sicuro il proprio avvenire.
Ad Esmeraldas, perciò, decorsi ormai vari lustri dall’accendersi della miccia rivoluzionaria, in un presente innalzatosi sui mutamenti prodotti dai roventi scontri di un passato assai remoto, rimane un unico sistema per poter tornare indietro nel tempo e, come precipitando nello stretto budello di un incubo, riassaporare le atmosfere e le angustie di quando ancora i neo-libertadores non avevano fatto ingresso nel suo porto: introdursi, con una buona dose di sopportazione, nelle sacche della simil-vita, gonfiatesi, in una anacronistica e terrificante fissità, agli estremi antipodi del circostante fermento evolutivo.
Incamminarmi nei sobborghi di una ciudad che ancora sta imparando a crescere, in compagnia dei successori dei suoi primi cercatori dell’oro del progresso, così è stato come salire sulla macchina del tempo ed andare ad aprire quella porta nella quale qualcuno, la cui memoria è rimasta inalterata dal susseguirsi dei secoli, ha immaginato vi fosse appiccicato l’inequivocabile cartello: “per me si va…..”. In altre parole, è stato un po’ come piombare all’interno del lucido (ed in questa specifica circostanza, anche decisamente raggelante) racconto di uno dei capitoli (logicamente quello dedicato all’inferno) della Divina Commedia, un libro che, con tutto il suo carico di sofferenza, credevo potesse esistere solo nella fervida inventiva del suo inarrivabile autore e non pure nella coeva realtà.
Pampón, Potosí, Santa Marta: questi i nomi dei moderni gironi danteschi. Pampón, Potosí, Santa Marta: questi i nomi dei quartieri che cingono, in una cerchia opprimente, il purgatorio di Esmeraldas. Pampón, Potosí, Santa Marta: questi i nomi delle stanze segrete e recondite di una sotto-città rassegnata alla sua sventurata sorte (fosse solo per l’anonimato dal quale è soffocata!) e dove, chissà per quanto ancora, i relativi dannati dovranno continuarvi a scontare le loro colpe senza peccato…o, se un peccato gli si volesse proprio affibbiare, sarebbe quello di essere venuti alla luce in un luogo ed in un flash temporale nei quali il nutrimento per anima, mente e corpo scarseggia al punto tale da lasciarli sospesi in una dimensione d‘incoscienza a-esistenziale e, di conseguenza, nel non sapere o non esser predisposti a capire da quale lato guardare per arrivare, finalmente, a scorgere l’alba.
…..questi i riflessi sfogati di una Esmeraldas più giovane di almeno 30 anni.
Reportage del febbraio 2007